giovedì 14 maggio 2009

A grande richiesta torna "Frugando nelle mattinate invernali"

La paura di guardare le fece premere il tasto rosso, l’unico tasto rosso del suo Nokia di cui non conosceva il modello; l’adrenalina salì: era la sola maniera per sapere l’ora in quella stanza della casa. E aspettava che lo schermo si accendesse come se aspettasse un responso. Erano le nove e cinquantotto, in fondo sarebbe dovuta essere ad almeno cinque chilometri dal letto fra due minuti, pensava fosse più tardi, pensava che l’orario di apertura fosse già passato. Si ritrovò in piedi, con lo scatto felino di un leone sedato, non si mise il reggiseno perché tanto il maglione era abbastanza grande da permettere omissioni, si gettò al piano di sotto dove afferrò l’indispensabile: il computer e una sigaretta. Alle dieci e zerosette era riuscita già a parcheggiare e si dirigeva a grandi falcate, evitando le porcherie che avevano lasciato i piccioni, verso il centro del paese. Stava cercando di dare un’immagine sveglia di sé, e si testava con i passanti che la ignoravano allegramente, anche loro con l’aria ingenua di paesani che svolgono commissioni, un po’ come lei, e già il pensiero di dover fare uno sforzo denotava che sveglia non lo era per niente. In macchina aveva inutilmente provato ad aggiustarsi i capelli, ma erano ormai un caso perso, e se non la avesse smessa di stropicciarsi gli occhi avrebbe fatto un volo nel burrone.
Erano le dieci e dodici: solo la vigilessa da lontano le fece segno; per fortuna nessun pubblico era là ad assistere al suo clamoroso ritardo dalle palpebre appiccicose. Era stata un sogno l’immagine di tutti gli impiegati comunali che la aspettavano a braccia conserte chiedendo spiegazioni? Si era già preparata qualche scusa da rifilare; però subito si accorse che in realtà nessuno aveva dato peso a quel quarto d’ora soperchio. Meccanicamente mise le chiavi in tutte le toppe del caso, aprì quel benedetto museo che l’aveva strappata alle coperte e si mise a sedere, ancora guardandosi intorno, o credendo di guardare. Una coppia era già arrivata, anzi un trio, coppia con passeggino. I due avevano quella cordialità giudiziosa e giudicante della gente del nord. Il bambino non ancora. Sicuramente era la nebbia nella sua testa che le modulava le sensazioni. Quando se ne sarebbero andati? Lei continuava a guardare le telecamere delle sale, ancora foto.

I suoi pensieri mattutini non erano mai troppo complessi. Le sue giornate si svolgevano di solito come l’arco di una vita. Al mattino, aveva un’infantile inesperienza, faceva o trasgrediva senza motivo ciò che le aveva insegnato la mamma, si lavava e mangiava, se ne aveva il tempo, si faceva domande ma sentiva che non aveva la capacità mentale per dar loro una risposta e avrebbe dovuto chiedere ai grandi; nel pomeriggio o comunque verso l’ora di pranzo aveva l’atteggiamento godereccio e scherzoso dell’adolescente, ma poi, per un nonnulla si oscurava e aveva voglia solo di sparire. La sera, età adulta: in realtà aveva pensato a questi paragoni ma dire che la sera era età adulta era la conseguenza di una post-adolescenza e non di un’esperienza vera e propria, ad ogni modo, la sera era il momento in cui davvero sentiva che i suoi pensieri avevano finalmente un filo logico, aveva tutto il vigore della tanto attesa assenza di sonno e di una lucidità mentale che le davano il massimo della potenza durante tutto l’arco della giornata.
Lei era una persona a cui non piaceva l’idea di invecchiare. Andava infatti a letto tardissimo, impegni permettendo, e una volta lì, al capezzale, ripensava alla sua vita e si struggeva di rimpianti. Pensava all’aldilà, pensava all’aldiquà e credo che l’omino del sonno, o chi di lui ne fa le veci, andasse a dargli una botta in testa per addormentarla: sennò non l’avrebbe smessa. Sono le undici e mezza.
Anche in quel preciso momento in cui stava scrivendo imitando la Signora Fletcher che in realtà non aveva mai seguito in televisione, o sentendosi proprio come una scrittrice di best-sellers alla faccia di tutti gli zotici che passavano, continue interruzioni esterne: driin, vecchietta il mio parroco è bravissimo se non si va alla messa si diventa arabi, si diventa gentaccia, posso fare una fotocopia? Buongiorno, buongiorno, ciao, arrivederci, non lo so chieda su.
Aveva lasciato le sigarette a casa. Come ne avrebbe fumata volentieri una; ormai mancava solo quasi un’ora per poter dire di aver completato metà della sua giornata “lavorativa”; quello di cui aveva più bisogno era un po’ di lucidità, e tanta caffeina. La linea dei suoi pensieri stava andando su un binario morto, e non ci poteva credere che quella sera stessa avrebbe organizzato una cena. Tornando al paragone della giornata e la vita, era come se, a sette anni le avessero detto “Ma lo sai che da grande aprirai una catena di ristoranti?” e siccome quando era bambina credeva che non avrebbe raggiunto la maggiore età e soprattutto sapeva cosa fossero i ristoranti ma non pensava si potessero incatenare fra loro, non ce la faceva allo stesso modo a credere di essere in grado di preparare tutto e di ricevere degli ospiti: in quel momento era troppo fiacca.
La mattina non aveva voglia di cantare, eppure era nata per vivere in un musical. Stare nel suo paese natale le metteva addosso una dose massiccia di gravità e luoghi comuni a cui non credeva, non smentiva le persone che incontrava per la pigrizia di contraddirle sapendo che non sarebbero arrivati a nessuna conclusione; atteggiamento, il suo, da pallone gonfiato, da artista egocentrico che non è capace di scrivere un trattato abbastanza ragionato.
Valutava la sua intelligenza per la quantità dei suoi pensieri, in fondo il Surrealismo di cui le avevano detto averci capito poco l’aveva in parte influenzata sulla scelta e la valutazione del suo prodotto mentale; era quella una maniera, una scusa, per non darsi della stupida?
Anche adesso, nonostante l’idea geniale di raccontare la mattinata in terza persona con figure retoriche poco raffinate, sentiva che avrebbe lasciato il racconto a metà

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