sabato 30 maggio 2009

Petit traité sur le peu de synchronisme



È arrivata l'illuminazione! Ecco che cosa manca: la sincronia. A poco è valso spegnere la luce alla fine di molte e molte giornate e chiedersi "Ma in fondo, cosa c'è che non va?", in un susseguirsi sterile di speculazioni. Ma certo! È stato come riaccendere di scatto l'abat-jour quando si avverte qualcosa di sospetto nella stanza, di notte.
Il nocciolo sta nelle traiettorie diseguali, in tempi differiti. Sta nella mancanza di comunione di intenti, e se c'è, è in momenti diversi. Non è una questione di assenza di sintonia, di complicità. Anzi. E siamo magari in perfetta sincronia con qualcuno che è lontano. Ma a cosa serve? A saperlo, e basta. Sono i presenti che sfuggono, che non ci seguono, o noi non seguiamo loro. Semplicemente, stiamo viaggiando su binari che non si incontrano quasi mai. Abbiamo magari scelto lo stesso tipo di treno per condivisione di gusti. Magari viaggeremmo bene insieme collegati, ma non accade.
Siamo completamente scoordinati, e questo perché ognuno fa i movimenti quando vuole e non secondo una coreografia stabilita e sicura come poteva accadere in passato. Stiamo a mano a mano diventando sempre più unici e non riusciamo a sincronizzarci con qualcun altro, o ci riesce difficile. O forse non siamo abbastanza chiari con gli altri, non gli diamo modo di accompagnarci, e prediciamo erroneamente gli altrui movimenti, per difficoltà di decifrazione o per autoconvinzioni cretine.
Quello che abbiamo imparato lo abbiamo ormai immagazzinato, almeno così pare. Ci siamo creati la nostra coscienzina, le nostre convinzioni, le abitudini intoccabili. Poco è lo sforzo di iniziare a suonare tutti insieme: se ci incontriamo è per trarre soddisfazioni momentanee, per poi congedarsi e congelarsi.
Adesso, non è una crescita in contemporanea, ma una botta di culo se qualcuno ti sta dietro.
Buona serata.

Garid vos, ay yermanelas
com' contener é meu mali?
Sin el habib non vivreyu
ed volarei demandari.

martedì 26 maggio 2009

De toutes les matières c'est la ouate qu'elle préfère

Uno va avanti così, senza troppi programmi, come se le passioni spianassero la strada. E fossero sufficienti a farsi apprezzare. Forse nei piccoli ambienti funziona, quando l'ovatta di amici e parenti pronti a giustificare gli atti rende sicuri i movimenti. Ma se passa una folata di vento del mondo là fuori, quante carte buttate all'aria.

Uno va avanti così, come se i processi mentali che attraversano la mente fossero visibili. Ma anche paradossalmente come se fossimo mimetizzati nella macchia, quando abbiamo dimenticato a casa anche il giornale per nascondere ogni tanto la faccia. Il baratto sta tutto qui, comunque: vous me regardez, mais moi aussi je vous regarde. E chissene, punto. Piccola rivalsa che significa ben poco.

Obiezione vostro onore, in questo mondo bisogna avercelo innanzitutto, un programma. Anche l'irrazionale ha bisogno di una logica da distruggere. E spesso i guardiani della logica scrutano più di quanto non lo facciamo noi, abbiamo sempre l'impressione che sappiano troppo e che gli ignoranti siamo noi. Certo, uno si butterà prima o poi appoggiandosi alle proprie infallibili qualità, ma chi assicura che le qualità valide per un individuo lo siano per un altro? E chi ci venderà l'eterna giovinezza?

Ci vorrebbe un dogma regolatore. Ma anche quelli alla lunga vengono meno, il mondo è disordinato, e per questo è bello. Anche l'irrazionale ha bisogno di una logica da distruggere, ripeto. La logica mi rincorre, mi dice Mani in alto. E disprezzarla, significa paura della propria incapacità di fare programmi. E dare coerenza con gli atti al pensiero. Invece no, a volte lo stupore viene prima di tutto dall'interno, non da quello che si vede.

Bisogna conoscere le norme per trasgredirle coscientemente, per fare una rivoluzione, anche impercettibile. C'è molto lavoro da fare per costruire una molotov consapevole.

E bisogna soprattutto relazionarsi con gli altri cautamente, perché le sorprese ci aspettano pour un oui, pour un non. E per fortuna, sennò sai che palle. Uno va avanti, credendo di trovare logica almeno negli altri quando anche loro lottano per razionalizzare le azioni. E mica gli riesce tanto bene. Uno va avanti, ma non se la può prendere. Poi verrà un barlume di sincronia, e ci sembrerà di essere una cosa sola.

Solo l'operato conta, secondo loro. Non il mezzo, né le parole buttate là, su un tavolo non apparecchiato. A volte si raggiungono dei risultati sorprendenti, nonostante la condotta. Mi viene in mente Gesualdo da Venosa e lo spinoso "teorema adiabatico", dove solo il lavoro è implicato, citato da Battiato che mi ha mandato in crisi con ricerche su Wikipedia. Assassino della moglie, ma compositore di musiche sublimi. Cosa importa di più in fondo? Questo o quello? Forse gli anni di distanza e la non conoscenza della sposa ci portano a buttarla nel dimenticatoio. Finiremo così se il nostro operato non è degno di nota?

Anche qui ma che vado dicendo, non ho nemmeno organizzato tutto questo discorso. Vogliatemi bene lo stesso, cari ovattatori.
Pensiero causale, imperativo categorico, ferma distinzione dell'uomo dall'animale, teorema adiabatico: i madrigali di Gesualdo principe di Venosa musicista assassino della sposa - cosa importa? Scocca la sua nota, dolce come rosa.

domenica 24 maggio 2009

Giacinto del Prato Coniglio ricita

Do fundo da inconsciência
Da alma sobriamente louca
Tirei poesia e ciência
E não pouca.
Fernando...


Dal fondo dell'incoscienza
Dell'anima sobriamente matta
Ho estratto poesia e scienza
E tanta.


É por ser mais poeta
Que gente que sou louco?
Ou é por ter completa
A noção de ser pouco?
...Pessoa.

Sono folle perché più poeta
Che gente?
O perché ho completa
La nozione di esser quasi niente?

giovedì 21 maggio 2009

Giacinto del Prato Coniglio cita

Contemplo o lago mudo
Que uma brisa estremece.
Não sei se penso em tudo
Ou se tudo me esquece.
F. Pessoa

Contemplo il lago muto
Che una brezza fa ondeggiare.
Non so se stia pensando a tutto
O se tutto mi voglia dimenticare.


© F. Pessoa

domenica 17 maggio 2009

Guiris


Oh mio Dio sta tornando l'estate. E non è da sola. Mi pare cosa buona e giusta soffermarmi un po' su un argomento che mi sta a cu...ore. I TURISTI. Li conosco i miei polli, e conoscendoli, li evito.
Il mio atteggiamento più comune quando vado in visita in un paese straniero consiste nel cercare con ogni mezzo di confondermi con i locali. Armi utilizzate: nascondere la macchina fotografica dopo ogni scatto, ascoltare musica per strada, fermarmi a leggere, alzare OGNI TANTO la testa. Parlare solo se interpellata, controllare la cartina in bagno. Poi è logico, se sono in compagnia di connazionali lo sentono che parlo italiano.
Le nostre città si preparano ad una progressiva invasione di orde assassine (da non confondere con le orche assassine - un minuto di silenzio per Free Willy) che non gliene importa un fico fresco di sbandierare al mondo che loro, ebbene sì, sono in ferie. Orde che hanno già mandato le avanguardie in avanscoperta, a quanto pare, sprazzi di visitors come il polline, a maggio.
Il turista di oggi è diventato più scaltro: non si lascia più abbindolare da negozi di souvenir dove pagavi 3 grammi di sugo centomilalire. Sarà che hanno finito i soldi pure loro.
Arrivano, con quel naso in su, quelle mani dietro la schiena o sulla macchina fotografica, pronti a raccontare a casa tutto quello che hanno visto. In questa lingua: "Fddffjldnlvpfijvidhiofdh!" che mia nonna avrebbe detto "Ma come faranno questi stranieri a capirsi fra di loro". Abbigliamento di dubbio gusto, tessuti tecnici, colorito paonazzo, cono gelato del turista (nessun italiano ha mai mangiato in vita sua il cono da 12€ placcato cioccolato e granella di nocciole).
I peggiori sono gli americani, machevelodicoaffà. Forse nessuno gli ha mai detto quale valenza abbia il saluto, questa è la mia speranza più recondita. Con quel fastidiosissimo Hello che riecheggia nei nostri crani, o al massimo uno striminzito Ciao per tutti: vecchi, bambini, giovani, laureati, analfabeti, stronzi, brava gente. Salutare equivale a dare un segno di inoffensività. È una formula breve per dire Vengo in pace, stai tranquillo non ho intenzione di farti del male. Con tale premessa si sta freschi. Non si sono presi la briga di sapere come si dica Buongiorno. Tanto! Nostri lingui capiri dappertutti! Generalizzo troppo, diamo una percentuale: secondo una mia stima il 75% fa così. E attacca a parlare in inglese prima di chiederti gentilmente se sei in grado. Quando si trovano sul punto di pagare tirano fuori dal wallet una paccata di €uri tanto per contarli davanti a te, che vedi quei fogli viola, mai conosciuti prima.
Poi ci sono i giapponesi. Almeno vedi l'orizzonte se te li ritrovi davanti in blocco.
Gli olandesi invece parlano sottovoce...vogliono confondersi coi tedeschi, desiderano che tu non capisca da dove vengano. Vorrebbero quasi che tu non li localizzi...vorrebbero appartenere ad un'area non specificata, un po' più estesa del Benelux, che arriva fino alla Danimarca. E soprattutto, bisogna vedere se sono belgi o olandesi. Mistero della lingua! Cari olandesi ma di che vi vergognate? Magari fossimo come voi! Dopo tutto è inutile che svicolate: le montature degli occhiali sono inequivocabili.
I crucchi, loro, ormai non li vediamo manco più, si stanno naturalizzando italiani; risoprannominati I Fedelissimi.
I Sudamericani li trovi solo d'inverno.
I francesi girano curati e con l'aria scettica.
Se ti domandi Ma questi sono due ore che li ascolto ma di dove cazzo sono????, sono finlandesi. Come si diceva un tempo fra di noi: "Dekke voppo kappa kappa". Ma a volte ungheresi.
Poi ci sono gli spagnoli. Si vergognano degli stereotipi che li riguardano e poi fanno di tutto per non smentirsi. Almeno se sono in più di tre. Come gli italiani, ugualos.
I portoghesi sono rari ma in aumento. Fuori moda decisamente, li riconosci dalle scarpe, le più brutte d'Europa. E un ascolto disattento farà trasalire, perché si crede di trovarsi di fronte a esemplari di un chissà quale popolo slavo dalle sopracciglia nere.
I polacchi: si vogliono confondere come gli olandesi, ma sono generalmente più rachitici, anche un po' sgualciti. Ma io gli voglio bene.
Gli inglesi. Bei cappelli! Lenti lenti, risate risate.
I greci, uhm un po' truffaldini ma molto kos kos, caa dici scusa?
Svedesi, tornate quando i vostri figli saranno in età da marito. E soprattutto, non lasciate che quei poveri bimbi albini pestino le cacche di piccione con la pianta dei loro piedini scalzi.

(Ma ora viene il bello, apro una parentesi sul cortile interno. Sto parlando dei cinquantenni italiani che fanno la gita fuori porta. Le signore: golfino sulle spalle, o giubbotto di jeans, pinocchietto sempre di jeans, scarpe da ginnastica immacolate (e grazie! Le usi una volta all'anno per fare la gita fuori porta col marito!), occhiali da sole sulla testa, mèches da urlo, non suo. Il marito: non gliene frega un cazzo, sarebbe volentieri rimasto a casa. Trippa tesa sotto la polo stirata, fa piuttosto pendant con la signora che indica e propone. I figli, se ne hanno, o non vivono con loro o non gliene fregava un cazzo di fare la gita fuori porta. Il marito però non si è potuto sottrarre ai voleri della consorte.)

In fondo però mi tocca stare zitta. Qualcuno una volta mi disse che è solo grazie a loro se il luogo in cui vivo è conservato e si può permettere un'economia. Ma sti ca', io non li reggo! Gli dovrei pure dire Grazzi milli?

© Bustd-tees

giovedì 14 maggio 2009

A grande richiesta torna "Frugando nelle mattinate invernali"

La paura di guardare le fece premere il tasto rosso, l’unico tasto rosso del suo Nokia di cui non conosceva il modello; l’adrenalina salì: era la sola maniera per sapere l’ora in quella stanza della casa. E aspettava che lo schermo si accendesse come se aspettasse un responso. Erano le nove e cinquantotto, in fondo sarebbe dovuta essere ad almeno cinque chilometri dal letto fra due minuti, pensava fosse più tardi, pensava che l’orario di apertura fosse già passato. Si ritrovò in piedi, con lo scatto felino di un leone sedato, non si mise il reggiseno perché tanto il maglione era abbastanza grande da permettere omissioni, si gettò al piano di sotto dove afferrò l’indispensabile: il computer e una sigaretta. Alle dieci e zerosette era riuscita già a parcheggiare e si dirigeva a grandi falcate, evitando le porcherie che avevano lasciato i piccioni, verso il centro del paese. Stava cercando di dare un’immagine sveglia di sé, e si testava con i passanti che la ignoravano allegramente, anche loro con l’aria ingenua di paesani che svolgono commissioni, un po’ come lei, e già il pensiero di dover fare uno sforzo denotava che sveglia non lo era per niente. In macchina aveva inutilmente provato ad aggiustarsi i capelli, ma erano ormai un caso perso, e se non la avesse smessa di stropicciarsi gli occhi avrebbe fatto un volo nel burrone.
Erano le dieci e dodici: solo la vigilessa da lontano le fece segno; per fortuna nessun pubblico era là ad assistere al suo clamoroso ritardo dalle palpebre appiccicose. Era stata un sogno l’immagine di tutti gli impiegati comunali che la aspettavano a braccia conserte chiedendo spiegazioni? Si era già preparata qualche scusa da rifilare; però subito si accorse che in realtà nessuno aveva dato peso a quel quarto d’ora soperchio. Meccanicamente mise le chiavi in tutte le toppe del caso, aprì quel benedetto museo che l’aveva strappata alle coperte e si mise a sedere, ancora guardandosi intorno, o credendo di guardare. Una coppia era già arrivata, anzi un trio, coppia con passeggino. I due avevano quella cordialità giudiziosa e giudicante della gente del nord. Il bambino non ancora. Sicuramente era la nebbia nella sua testa che le modulava le sensazioni. Quando se ne sarebbero andati? Lei continuava a guardare le telecamere delle sale, ancora foto.

I suoi pensieri mattutini non erano mai troppo complessi. Le sue giornate si svolgevano di solito come l’arco di una vita. Al mattino, aveva un’infantile inesperienza, faceva o trasgrediva senza motivo ciò che le aveva insegnato la mamma, si lavava e mangiava, se ne aveva il tempo, si faceva domande ma sentiva che non aveva la capacità mentale per dar loro una risposta e avrebbe dovuto chiedere ai grandi; nel pomeriggio o comunque verso l’ora di pranzo aveva l’atteggiamento godereccio e scherzoso dell’adolescente, ma poi, per un nonnulla si oscurava e aveva voglia solo di sparire. La sera, età adulta: in realtà aveva pensato a questi paragoni ma dire che la sera era età adulta era la conseguenza di una post-adolescenza e non di un’esperienza vera e propria, ad ogni modo, la sera era il momento in cui davvero sentiva che i suoi pensieri avevano finalmente un filo logico, aveva tutto il vigore della tanto attesa assenza di sonno e di una lucidità mentale che le davano il massimo della potenza durante tutto l’arco della giornata.
Lei era una persona a cui non piaceva l’idea di invecchiare. Andava infatti a letto tardissimo, impegni permettendo, e una volta lì, al capezzale, ripensava alla sua vita e si struggeva di rimpianti. Pensava all’aldilà, pensava all’aldiquà e credo che l’omino del sonno, o chi di lui ne fa le veci, andasse a dargli una botta in testa per addormentarla: sennò non l’avrebbe smessa. Sono le undici e mezza.
Anche in quel preciso momento in cui stava scrivendo imitando la Signora Fletcher che in realtà non aveva mai seguito in televisione, o sentendosi proprio come una scrittrice di best-sellers alla faccia di tutti gli zotici che passavano, continue interruzioni esterne: driin, vecchietta il mio parroco è bravissimo se non si va alla messa si diventa arabi, si diventa gentaccia, posso fare una fotocopia? Buongiorno, buongiorno, ciao, arrivederci, non lo so chieda su.
Aveva lasciato le sigarette a casa. Come ne avrebbe fumata volentieri una; ormai mancava solo quasi un’ora per poter dire di aver completato metà della sua giornata “lavorativa”; quello di cui aveva più bisogno era un po’ di lucidità, e tanta caffeina. La linea dei suoi pensieri stava andando su un binario morto, e non ci poteva credere che quella sera stessa avrebbe organizzato una cena. Tornando al paragone della giornata e la vita, era come se, a sette anni le avessero detto “Ma lo sai che da grande aprirai una catena di ristoranti?” e siccome quando era bambina credeva che non avrebbe raggiunto la maggiore età e soprattutto sapeva cosa fossero i ristoranti ma non pensava si potessero incatenare fra loro, non ce la faceva allo stesso modo a credere di essere in grado di preparare tutto e di ricevere degli ospiti: in quel momento era troppo fiacca.
La mattina non aveva voglia di cantare, eppure era nata per vivere in un musical. Stare nel suo paese natale le metteva addosso una dose massiccia di gravità e luoghi comuni a cui non credeva, non smentiva le persone che incontrava per la pigrizia di contraddirle sapendo che non sarebbero arrivati a nessuna conclusione; atteggiamento, il suo, da pallone gonfiato, da artista egocentrico che non è capace di scrivere un trattato abbastanza ragionato.
Valutava la sua intelligenza per la quantità dei suoi pensieri, in fondo il Surrealismo di cui le avevano detto averci capito poco l’aveva in parte influenzata sulla scelta e la valutazione del suo prodotto mentale; era quella una maniera, una scusa, per non darsi della stupida?
Anche adesso, nonostante l’idea geniale di raccontare la mattinata in terza persona con figure retoriche poco raffinate, sentiva che avrebbe lasciato il racconto a metà

domenica 10 maggio 2009

Ghiandole surreali

Oggi in piazza spira un vento banale. La pietra inquieta (anche se serena) che la pavimenta nasconde nelle insenature chicchi di riso, ah ah ah. C'è stato uno sposali-zio ieri. Mio zio li ha poi effettivamente sposati. Ho dovuto poi ramazzare l'augurio di speranza e fertilità degli invitati, un lavoro atroce a detta di quella col fischietto mentre passava. Però non ha fischiato. Che se ne faceva di quell'oggetto al collo? Forse voleva oggettivare la sua presenza. Ma la banalità dei suoi discorsi sorpassa di gran lunga_____________quella del vento che spira oggi in piazza. Anzi: l'espressione più rappresentativa sarebbe far risuonare da quel vento il fischietto, cento grammi di si-bili, amari e banali.

giovedì 7 maggio 2009

Dica trentatré

Questo cielo non esiste più. Ricordo che dopo la qui presente foto giaceva in quel vecchio telefonino nero quella di un'alba a cui sono molto legata. Purtroppo lo schermo si disintegrò in un cinema all'aperto d'estate - oddio, d'inverno sarebbe stato bizzarro -, durante la proiezione soporifera (con Raz Degan che grazie a Dio spiccava) di Centochiodi. Cadde a terra, non si rianimò. Il telefonino, non Raz Degan.
Possibile che sia tanto diversa da quel periodo là, quando costruivo segnalibri per passare il tempo? Qualcuno si ricorderà del bambù messo a crescere nella mezza bottiglia di plastica, di Bob Marley che canta "Ih Madonnina", Trainspotting e Guernica ai muri che ancora paiono non abbandonarci. Cassette della frutta come scarpiere, e magazzini di carta. E le birre, in ordine: Moretti, Poretti, Morena, Porena. L'ammorbidente alla rosa Conad. Le collane di pasta e i cappelli a punta. Ilda, Enza, i gerani, il canide del piano di sotto. La finestra sul mondo: un buco di cento metri, la luce sempre accesa. Un'unica tovaglia, in stile tirolese, per le grandi occasioni. La tenda con le papere. La Coca-Cola Light, la lavagnetta. Il denaro è un'allucinazione collettiva, Il tempo è denaro, Jean-Pierre 200 Saint-Bitter. Stelle a quattro zampe, l'acqua-gym e lo yogurt al cocco. Le melanzane, quintali di fragole, zucchine e patate. Niente soffritto! Le tovagliette e il frigo sostituito. Il quadro della bambola (Anche questo quadro deve avere un senso, qual è secondo te? Lascia un commento), più inquietante di Bruno Vespa. I faggiani. Lo sbattitore del capputchino. Il Carnevale dell'ultimo minuto, il bagno con l'aspiratore e il mocio. Le pulizie solo dopo un esame. Gli accappatoi dietro la porta. E tutto quello che mi serviva c'era. Cosa darei per tornare in quel piccolo mondo antico Fogazzaro.

lunedì 4 maggio 2009

All'ombra di accenti circonflessi

J'allume la lumière, la lumière des rêves.
Clic.
Je me cache aussitôt derrière les ombres projectées par leurs accents circonflexes.

ˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆˆ
Ces accents, petits toits qui m'abritent, qui me sourient.
Qui vivent tous seuls, et protègent les petites voyelles frileuses.
De petits V à l'envers, petits chapeaux, petits A sans bâton.
Souvent oubliés, qui ont gagné sur le S, la lettre la plus amibiguë de l'alphaßet.
Des sourcils intéressés, qui ne tournent jamais leur dos.
Voilà, j'ai compris ma condition: je me cache derrière des accents circonflexes.

Non, il n'y a rien à dire.
Je me contente d'attendre quelqu'un qui aura tout compris avant que je parle.


domenica 3 maggio 2009

Baby it's cold outside

Se non si può uscire dai binari a parole, figuriamoci col linguaggio del corpo: si rischierebbe di diventare dei pervertiti afasici.

Hey, hey
you know what to do
Oh, baby drive away to Malibu