martedì 27 luglio 2010

Ognun per sé

L'Italia è più moderna, è più europea! Non grazie a qualche trattato, ci sono dei segni più sotterranei. Anche stavolta i cambiamenti vengono dal popolo, che cambia il mondo, e non il contrario.

Soffermiamoci brevemente a considerare il soggetto parlante in due lingue come l'inglese e il francese. 
In inglese non esiste il congiuntivo, tempo verbale del dubbio; in francese dopo un verbo di stima (pensare, ritenere, credere) l'uso del congiuntivo non è permesso. "Je pense que tu es beau": penso che sei bello, punto, non che sei bello ora poi forse rettifico. Quindi chi enuncia un pensiero non può aver dubbi sulla credibilità dello stesso. In italiano no, ciò che si pensa è continuamente messo in discussione. In italiano si dice "Penso che tu sia bello", poi magari per un altro no, bisogna pur sempre sentire che ne pensa il mio superiore, non posso realmente esprimere il mio pensiero. C'è sempre da render conto a qualcuno.

Il soggetto italiano però al giorno d'oggi è più sicuro di sé. Ne è una prova l'affievolirsi dell'uso del congiuntivo (ma non scomparirà mai, di questo io ne sono certa). 
E anche, visto che l'ho citato, troviamo lo stesso fenomeno nel pronome "sé": al tempo di Leopardi era un errore scriverlo senza accento, successivamente per disambiguarlo dalla congiunzione dell'ipotetica "se", l'uso dell'accento è diventato obbligatorio (a parte i casi di se stesso e se medesimo; ad ogni modo è più elegante accentare anche in questi due casi). 

Quindi l'io dell'italico parlante è considerato al giorno d'oggi più integro, più lontano dall'ipotesi e di conseguenza in una condizione di affermazione più categorica, pronto a lanciarsi in un mondo di pragmatici.

Poi è anche vero che quelli che usano poco il congiuntivo scrivono anche "pensare per se", quindi è tutto dire.

sabato 24 luglio 2010

venerdì 23 luglio 2010

Horror vacui

www.etimo.it

Fino a poco tempo fa si parlava solo del tempo. Ora invece si impone anche l'inflazionatissima domanda  "Allora, dove vai / cosa fai per queste vacanze?". 
A parte il fatto che trovare un'occupazione per le vacanze annulla istantaneamente il significato intrinseco delle stesse ma poi perfavore, il mare. Perché si dà per scontato che si debba andare al mare. Per un giorno o due ci può anche stare, e rispetto chi è nato sulla costa e vede i cavalloni come degli amici di infanzia. Ma io, ho forse occupato il tempo di un anno intero per andare finalmente a insabbiarmi le chiappe per quindici giorni? E poi chi lo dice che l'interlocutore sia completamente libero.
Questa frenesia del mare mi sfianca; i prezzi sono altissimi, la gente è tutta lì, con un piede nella sabbia e l'altro sull'autostrada, pronta a tornare a casa per raccontare il racconto delle vacanze, aspettando il momento del paragone dell'avambraccio in un malefico tan contest, che chi è più abbronzato diventerà il cane alfa del branco.

L'estate è un periodo dell'anno come un altro, con la differenza che si suda come i suini, vediamo di semplificare le cose.

venerdì 16 luglio 2010

Un pezzo del bel mezzo del dì

[…] Aprii gli occhi non fu propriamente un risveglio, piuttosto resuscitare in seguito ad uno svenimento, quando il mondo ridiventa nitido dopo uno stato di catalessi. 
{…}Sai no, sei mai svenuto tu. C'è differenza fra perdere i sensi e addormentarsi. Si capisce al risveglio, non nel momento in cui si cade in trance. A parte ovviamente il luogo dove questo accade, ma in fondo non ci si addormenta sempre a letto. 
Il sonno permette l'equilibrio con la veglia, di solito si aprono gli occhi e si vive bene, dopo un caffè torna tutto a posto. Se non fosse per qualche notte agitata. Quando si sviene invece ci si rialza tremanti e si pensa che il momento del bujo sia arrivato così improvvisamente che se si morisse sarebbe uguale. Poi il tuo corpo {…}
Quel che si sa è che i dirimpettaj mi conoscono a memoria, e che […]

domenica 11 luglio 2010

Que hasta en su muerte la fue llamando

Jean-Jacques Rousseau: coraggioso scrittore e abbandonatore di figli, combatteva contro il complotto dei suoi nemici immaginari confessando a tutti che gli piaceva esser sculacciato
Ma chi lo spingeva a giustificarsi in 774 pagine? Non poteva fare un riassunto? 
Io devo vivere la mia vita. *

Le Confessioni, riassunto dalle note drammatiche:

Rousseau nasce e vive 49 anni, in questo tempo fa di tutto un po': magna, beve, c'è chi gli sta simpatico, chi no. Incontra una, pure un po' ceppa, ci fa 5 figlioli, poi li abbandonano. Fa il filosofo, scrive di politica, di educazione, tanto stava in campagna a annusar pervinche.
Poi all'improvviso in Francia, in Svizzera, a Poggibonsi, gli bruciano le opere. Jean-Jacques fugge un po' qua e un po' là, si ferma in vari ostelli della gioventù mentre è in fuga. Ci mancava l'infezione alla vescica. Si veste da armeno, tunica per far prima al bagno e cappello di pelo per ornamento. La compagna lo segue trafelata.
Passano altri 3 anni, esce un pamphlet: Voltaire lo sputtana pur restando nell'anonimato. Trattato dell'educazione un corno! Abbandoni 5 figlioli? Ma noi ti facciamo fare una brutta fine. Che tanto già è tutta la vita che ti nascondi e vai in campagna a fare il campagnolo e noi qui a Parigi a fare i salamalecchi.
Paura!
Scrivo le mie Confessioni, tanto col successo che ho avuto 'sti anni fra romanzi epistolari e trattati vari l'editore olandese voleva scrivessi la storia della mia vita, che alle signore parigine gli è tanto garbato La Nouvelle Héloïse. Così prendo due piccioni con una fava: la fava sono io, i due piccioni devo ancora scoprirlo, ma sono sicuro che presto mi beccheranno, se non l'hanno già fatto.
Allora fo così, scrivo le confessioni, confesso, mi perdonano e siamo tutti amici come prima.
Ok?
Poi 14 anni dopo muore.
Escono le Confessioni e chi s'è visto s'è visto.


Cucurrucucu Paloma - Lola Beltran

* Giuro che questa è l'ultima volta che scrivo di lui. Giuro.

mercoledì 7 luglio 2010

Approfitto dello stato di ebbrezza. Poi domani chissà.

Stasera sono rincasata stordita. Non succedeva da tempo ormai. E infatti qui di seguito un discorso che si addice a una persona stordita, o forse solo più lucida. L'avrei potuto fare oralmente, invece mi trovo a scriverlo. Siamo andati via di fretta, e avrei preferito stare a chiacchierare. Cosa pretendere, da figlia unica so benissimo sbrigarmela da sola, in questi casi. 

Ho cambiato sigarette, ma stasera ho quelle di una volta, quelle di tutta una serie di anni passati a fumare come un'imbecille, di quelle sigarette che fumi e dimentichi. E ho capito una cosa. Ho capito che voglio un interlocutore con cui poter essere fraintesa. Il fraintendimento è la mia meta. La mia metà. Quale lusso pretendere qualcuno con cui dire e disdire, in uno scambio pari di motteggi costruttivi, distruttivi, istruttivi. Per scavare in fondo a sé stessi nella più completa sincerità, nella più completa connessione, nel più completo rispetto. Senza giudizi, senza facce storte. So di essere perfettamente in grado di farlo. Quando uno deve render conto o dimostrare qualcosa, o cambiare per essere accettato, anche di poco, che immensa sconfitta. Per fortuna la vita mi ha regalato anche persone con cui questo procedimento avviene. Ma non con tutti funziona, e questo mi fa sentire oltremodo frustrata.

Che noja dover aspettare sempre il due più due. A volte si ha la sensazione di dire e comportarsi solo in parte, quando ci vorrebbe così poco per darsi completamente. Poi però, la paura degli altri, la derisione, l'esclusione. L'etichetta, le norme sociali. Mi sento a volte così frenata, e so che potrei dare molto di più, se solo dicessi tutto quello che mi passa per la testa. O se lo facessi. Poi mi dico no, bisogna che il pensiero e gli atti vengano filtrati da quel briciolo di razionalità che  mi resta. E nonostante tutto non mi sento ridimensionata, in linea di massima mi sembra di offrire agli altri la stessa immagine che ho di me stessa. Ma poi...poi resta un'amarezza di fondo, un'amarezza che conosco, e che non dò a vedere tanto spesso. Il problema è l'immagine che si ha degli altri. Ci costruiamo un mausoleo di chi ci sta di fronte, ci appoggiamo a un'iconografia indistruttibile di chi ci circonda. Ma non è così. Tutti abbiamo bisogno di cantare, di dire, di fare, di offrire le proprie qualità, di migliorare i propri difetti. 

Sai cos'è. Che bisogna minare la propria coerenza. Se uno è sempre ironico, allegro, va a finire che non si riesce a far pesare la propria serietà, e ogni atto o parola viene scambiata per ironica. Se, al contrario, si è sempre seri, nessuno ride alle tue battute. Non che le persone ironiche non siano degne di rispetto, di gravità: ma questo solo chi è intelligente lo sa. Per il resto, si approfittano di te e della tua allegria costruita. Trovare una via di mezzo non è facile, ma è sempre possibile offrire uno spiraglio di quello che si è, veramente. Le persone gravi sono in realtà dei giocosi che hanno paura di esser presi in giro, dei timidi. I simpaticoni sono dei timidi che usano qualsiasi strumento per intrattenere gli altri, che ti chiedono solo di farli ridere. Così uno si tiene per sé gli ingombri, che pesano, crescono, pesano, non esternati non hanno forma, non hanno nome. Il vizio della battuta. È un orribile vizio.

Pensare di dover sempre creare una comunicazione lineare mi pesa, e non poco. Quando hai perfettamente cognizione di poter sgravare tutto ciò che ingombra, senza pretendere di dover dare spiegazioni accurate, e ad ogni modo non farlo, quella è la vera violenza. Quella è la vera vita a mezzo. Perché a volte sembra ci si vergogni perfino di vivere, e il bene che si vuole agli altri è come limitato, limitante, perché sai bene che non dai tutto te stesso. Diventa come prendere in giro il prossimo a metà. Non è così?

Mi dovrò sentir dire che non ho ragione, e invece sono convinta che noi tutti viviamo a metà. C'è il nostro piccolo mondo non condiviso, quello che abbiamo nella testa come una verità imprescindibile e assoluta, che usiamo come metro di paragone per tutto ciò che accade. Poi ci sono le chiacchierate del più e del meno, dove si ha la sensazione di non esser soli. Poi ci sono le persone che ti sono vicine, che con uno sguardo sanno guardarti a fondo, e con una parola hanno già capito tutto. E quando si inizia a parlare beh, sei cresciuto di almeno tre chili.

Ci sono poi le persone con cui si parla d'amore, e non sono tante. Parlare d'amore. Che lussi. Con i diretti interessati, come una breccia in ciò che più è importante e avviluppato in un certo nucleo strano, che non si sa spiegare eppure chiarissimo. Poi ci sono quelli con cui si parla d'amore per massimi sistemi, e non si arriva a nessuna conclusione, solo ad un'affinità di intelletti. E poi ci sono quelli che ti stanno a sentire, quei santi a cui affidi gli scleri più incomprensibili e che poi saluti di fretta perché devi andare a farti la doccia.

Così è, e il mio problema più grosso, mi dispiace ammetterlo e peccherò di presunzione, è che non ho mai saputo essere veramente stupida.

sabato 3 luglio 2010

Now and then

Il racconto del passato dimostra punto per punto in che modo esso influenzi il presente. Rimembrare cose che furono, o metterle per iscritto dipana davanti agli occhi una serie di fenomeni importanti per capire chi si è, oggi.
Il presente della scrittura o del ricordo raccontato oralmente influisce a sua volta sul passato, perché è nel presente che esso viene descritto. Il presente fa da scalpello, e dà la forma a un passato che può riesistere, modificato dalle istanze attuali, ed anzi reso vero da un presente che lo rianima.
Se il Presente è lo scalpello, è stato il Passato, blocco di marmo, a passare in ferramenta a comprarlo. O, se preferite, il Passato si riflette sul Presente, solo che lui è uno specchio mobile e può cambiare angolazione.

Se vuoi conoscere i tuoi pensieri di jeri osserva il tuo corpo oggi
Se vuoi sapere come sarai domani osserva i tuoi pensieri di oggi