domenica 29 agosto 2010

Confidenze di un condannato


Copertina di J. Prévert e Brassaï
Perché mi hanno tagliato la testa?
Adesso sì che lo posso dire, tutto si cancella col tempo.
Era una cosa semplice, veramente.
Ero andato a passare la serata da degli amici ma c'era molta gente e mi annojavo. A quell'epoca ero un po' triste e mi veniva facilmente mal di testa.
Quell'atmosfera di festa mi irritava e mi stancava. Salutai e me ne andai. La padrona di casa mi avvisò che l'interruttore delle scale era guasto e che anche l'ascensore era in panne.
- Posso farle un po' di luce, aspetti.
- Luce, ma scherza, le dissi, sono come i gatti, io, ci vedo di notte.
- Sentite, disse ai suoi amici, è come i gatti, che meraviglia, ci vede di notte.
L'avevo detto come modo di dire, una battuta educata e che andava presa come di spirito, senza malizia.
Cominciavo a scendere a fatica i primi gradini della scala e le sbarrette di ottone del tappeto facevano un rumore curioso sotto i miei passi che strisciavano.

Ero in un'oscurità così nera che ebbi voglia all'inizio di risalire e chiamare. Rovistai innanzitutto nelle tasche, ma invano, niente fiammiferi.
Mi sedetti e riflettei, su cosa, non ricordo, aspettavo forse che qualcuno venisse in mio ajuto senza, ovviamente, sapere o intuire che avessi bisogno d'ajuto.
Rialzandomi a fatica e non trovando il corrimano, urtai con violenza contro un muro e cominciai a sanguinare dal naso.
Cercando nelle tasche un fazzoletto, misi finalmente mano a una scatola di fiammiferi con all'interno, purtroppo, un solo fiammifero.
Lo accesi con infinite precauzioni e, cercando un'altra volta il corrimano, scorsi come prima cosa in uno specchio, sul pianerottolo del piano dove mi ero fermato, il mio volto coperto di sangue.
E fu di nuovo bujo.
Ero sempre più disorientato.
All'improvviso, tendendo a caso, a tastoni, la mano, toccai un serpente che si mise a strisciare.
Bella serata. 
Quel serpente, era semplicemente il corrimano che per fortuna avevo ritrovato e che mi strisciava dolcemente sotto la mano che aveva appena asciugato il volto stupidamente insanguinato.
Mi venne allora da ridere: ero salvo.
E appena mi misi a scendere allegramente ma con prudenza, fui d'un tratto scaraventato a terra da qualcuno o qualcosa che, a tutta velocità, pure lui o lei, scendeva con una fiammella, senza dubbio quella di un accendino.
Rialzandomi un'altra volta, camminai di nuovo nel bujo, con le due mani avanti.
Quelle due mani incontrarono il muro ed il muro cedette.... Non era il muro ma una porta socchiusa.
All'improvviso musica e luce venivano dai piani superiori!
Sicuramente erano alcuni degli invitati che, a loro volta, scendevano accompagnati dalla padrona di casa, con una torcia in mano.
Veramente, non sapevo dove mettermi e non era un modo di dire; perciò, approfittando di quella porta per nascondermi, mi addentrai di qualche passo, quando d'un tratto, nella luce che aumentava, scoprii un corpo steso ai miei piedi.
Era il corpo di Antoinette.
Era là, supina, con gli occhi aperti, la gola pure.
Antoinette con la quale avevo vissuto tanto tempo e che, il mese prima, mi aveva abbandonato.
Antoinette che avevo supplicato, che avevo perfino minacciato.
Non potei trattenere un grido. Di terrore, quel grido e anche di stupore.
La padrona di casa, gli invitati si precipitano, porte che si aprono, altre luci subito si mescolano alle loro, portate da altri inquilini svestiti, terrorizzati e lividi.
Era già trascorso molto tempo da quando me ne ero andato ed ero lì, muto e coperto di sangue, sconvolto come nelle peggiori storie.
Vicino al corpo dell'amata perduta e - in quale stato - ritrovata, sul parquet, una lama riluceva come un pezzo di luna in un cielo stellato.
In ogni mano tremante si muoveva una luce.
Presenza inspiegabile oppure troppo evidente.
Immaginate l'immediato processo: il ricorso rifiutato, il goccetto offerto, il crocifisso da baciare e ancora come una luna, la mannaja d'acciajo.
Che volete, mettetevi al mio posto. Che potevo dire, che potevo raccontare? Avevo passato un quarto d'ora troppo brutto nelle cupe tenebre di quella scala buja e avevo avuto la folle imprudenza di affermare: ci vedo di notte, io, sono come i gatti.
Chi mi avrebbe creduto allora e senza ridermi in faccia?
Sì, ne sono sicuro, mi avrebbero riso in faccia per lunghi, troppo lunghi anni secondo me.
Ho preferito tacere piuttosto che esser coperto di ridicolo.

Jacques Prévert, "Confidences d'un condamné", in La Pluie et le Beau Temps, 1955

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